Facchini e bidelli dicono ACAB, All Coop Are Bastard

primo sciopero caatÈ tarda serata, il piazzale del CAAT, il centro agro-alimentare torinese che rifornisce i numerosi mercati della città, è ancora deserto. Nella notte tra giovedì 22 e venerdì 23 maggio i facchini che caricano e scaricano la merce, sostenuti dal sindacato Si Cobas, hanno indetto uno sciopero per protestare contro le condizioni inumane in cui sono costretti a lavorare (400 euro per lavorare 12-15 ore al giorno a fronte di contratti che ne prevedrebbero appena 6). La miccia che ha acceso la rivolta è la sospensione di 5 di loro, rei di aver protestato per le condizioni in cui sono costretti a lavorare. Alle undici al presidio sono presenti una quindicina di lavoratori e una quarantina di solidali, controllati da un paio di volanti dei carabinieri; poi verso l’una, come ogni giorno, arriva il primo pullman che scarica i facchini, il presidio si ingrossa e raggiunge presto le duecento unità. Cominciano ad arrivare i camion provenienti da tutta Italia che dovrebbero scaricare la merce al centro, ma vengono bloccati dai lavoratori che si schierano davanti ai cancelli. Subito si decide di far uscire solo i camion vuoti. Molti camionisti, informati da un volantino sulle ragioni dello sciopero, si dimostrano solidali con la lotta: alcuni spengono il motore, altri fanno inversione e se ne vanno.

padroni-polizia-lavoratoriLa situazione comincia a scaldarsi quando arrivano i primi padroncini, i capetti delle cooperative che gestiscono gli appalti al Caat. Pretendono di entrare, reclamano il loro diritto a “lavorare”, cioè sfruttare quei pochissimi lavoratori che sono entrati dalle porte secondarie. Seguono momenti di tensione: qualche padroncino tenta di sfondare il blocco con l’auto, ma viene prontamente respinto dalla determinazione dei facchini. Uno di questi padroncini scende seccato dalla sua vettura e ci illumina: “Voi potete protestare quanto volete, fare assemblee, volantinare, ma non potete fermare noi proprietari, altrimenti vi mettete contro anche la polizia”. Padroni&Polizia: ma noi sapevamo già che giocano nella stessa squadra. L’immenso piazzale si è ormai riempito dei camion parcheggiati e delle auto dei padroncini che non riescono ad entrare. E proprio i diversi mezzi con cui arrivano padroncini e facchini ci fa capire chi siano gli sfruttati e chi gli sfruttatori: ammiraglie di lusso per i capetti delle cooperative, autobus per i facchini. Evidentemente nelle cooperative, come in tutte le altre aziende, c’è chi comanda e guadagna, e chi fatica per una miseria. Nel frattempo la polizia, che ha inviato diverse camionette ed ha schierato i celerini sul piazzale, tenta la mediazione quando alcuni responsabili delle cooperative si dicono disponibili ad un incontro. Il dirigente della digos prova a convincere facchini e solidali a liberare i cancelli e fare assemblea sotto la tettoia del bar, ma il presidio non ci casca e prosegue il blocco, mentre una parte dei facchini incontra le cooperative.

camion_caatCome prevedibile l’assemblea con le cooperative ed i responsabili del centro si rivela subito un bluff: questi promettono la riassunzione dei 5 lavoratori sospesi, ma non danno alcuna garanzia effettiva e soprattutto non vogliono affrontare gli altri problemi sollevati dai lavoratori (caporalato, lavoro nero, contratti non rispettati, straordinari non pagati, razzismo e maltrattamenti). Così si torna tutti davanti ai cancelli. Verso le 4.30 la polizia, chiaramente sorpresa dalla determinazione dei facchini, tenta di risolvere la situazione aggirando il blocco e caricando per disperdere il picchetto. Peccato, per loro, che i manifestanti non indietreggino ed anzi rispondano alle cariche, obbligando le forze dell’ordine a sparare alcuni lacrimogeni per non essere sopraffatti dalla rabbia dei facchini.

caat scopero maggioIl blocco prosegue così fino alle prime luci dell’alba, quando la polizia decide di provare nuovamente a forzare la situazione, forse confidando nella stanchezza del presidio. Un plotone di poliziotti cerca così di aprire la strada ad un furgoncino che vuole uscire dal centro, ma i manifestanti rispondono sdraiandosi a terra; il padroncino perde la testa e accelera investendo facchini e solidali sdraiati. Tre di loro finiscono all’ospedale, ma ovviamente per i giornali il mezzo ha investito i poliziotti, invero solo colpiti di striscio. A fine mattinata i facchini strappano un incontro coi rappresentanti delle circa 30 cooperative e con presidente e direttore del Caat.

Il lunedì all’incontro emergono tensioni tra le cooperative che vorrebbero tenere la “linea dura” e quelle più disposte a cedere qualcosa pur di ricominciare a fare profitti. All’incontro partecipa anche il Comune di Torino, proprietario del 92% del Caat, nella persona di Domenico Mangone (PD). Come sempre il “partito del lavoro”, come si autodefinisce il Partito Democratico, si schiera dalla parte dei padroni, anziché da quella dei lavoratori. Infatti proprio Mangone risulta tra i più intransigenti, non vuole aprire alcuna trattativa coi facchini, né riconoscere le condizioni di estremo sfruttamento in cui lavorano, né tanto meno interloquire col sindacato che sta supportando la lotta dei facchini. Nonostante ciò alla fine prevale la linea del “buon senso” e le cooperative ed i rappresentanti del centro si impegnano non solo a riassumere i 5 facchini sospesi saldando gli arretrati, ma anche ad aprire un tavolo entro quindici giorni in cui regolarizzare tutte le posizioni di chi lavora in nero, applicare a tutti il contratto collettivo nazionale e garantire al sindacato dei Si Cobas un locale all’interno del Caat che sia punto di riferimento dove i facchini possano autorganizzarsi per imporre condizioni di lavoro almeno dignitose. Promesse importanti ottenute soltanto grazie alla forza messa in campo giovedì notte: proprio per questo, per far sì che tali promesse siano effettivamente mantenute da parte di cooperative e direzione del Caat, occorrerà tenere alta l’attenzione ed il livello di mobilitazione dei lavoratori.

Contemporaneamente, sempre lunedì 26, in uno scenario radicalmente differente abbiamo partecipato ad un altro sciopero, quello delle bidelle che si occupano delle pulizie in via Boggio, una parte del campus del Politecnico. Anche qui le lavoratrici, pur svolgendo le proprie mansioni all’interno di una struttura pubblica quale l’università, fanno in realtà capo ad una cooperativa, “L’Operosa”. Ed anche qui alle “normali” condizioni di sfruttamento (500 euro al mese per pulire in 4 ore quasi metà campus dell’ateneo in appena 12 lavoratrici) si sommano vessazioni perpetrate dai capetti della cooperativa che minacciano e aggrediscono verbalmente le lavoratrici ed i lavoratori. Solo per restare agli ultimi avvenimenti uno degli sgherri della cooperativa si è permesso di entrare nello stanzino dove una lavoratrice si stava cambiando, ed alle lamentele di questa ha risposto “Io faccio come mi pare”. Così l’Usb, il sindacato di base a cui la maggior parte delle lavoratrici aderisce, ha indetto lo sciopero.

La cooperativa, non paga, ha minacciato di licenziamento una neoassunta nel caso avesse partecipato allo sciopero, costretto 4 colleghe che puliscono l’altra parte della cittadella politecnica ad annullare la propria iscrizione all’Usb ed a rinunciare allo sciopero in solidarietà, costretto le stesse bidelle di corso Duca degli Abruzzi a sostituire le colleghe scioperanti nelle pulizie dell’altra parte del campus.

Durante l’assemblea svolta nel cortile dell’ateneo si decide di partire con un corteo interno al rettorato per pretendere un’assunzione di responsabilità da parte del rettore Gilli. Il Politecnico si è come sempre sfilato, rifiutando di assumersi le sue responsabilità, ma si è detto disponibile a verificare il rispetto dei diritti dei lavoratori incontrando la dirigenza della cooperativa bolognese. Una cooperativa, “L’Operosa”, che è solita comportarsi in maniera autoritaria ed anti-sindacale: basti qui ricordare la vertenza aperta anche all’Università di Firenze coi lavoratori della guardiania. In attesa del promesso colloquio, la cooperativa, evidentemente timorosa di ulteriori azioni da parte delle lavoratrici, ha prontamente messo a norma lo stanzino dove queste si cambiavano, separandolo dal ripostiglio dove sono riposti gli attrezzi. Ma soprattutto nei giorni immediatamente successivi allo sciopero ha immediatamente cambiato atteggiamento, riducendo le “visite ispettive” e non insultando più il personale.

ikea kill billyCosa ci spinge ad accomunare queste due situazioni, i facchini, prevalentemente immigrati, dei mercati generali e le bidelle dell’università, apparentemente così lontane? È il mondo delle cooperative, un modello di sfruttamento che il governo Renzi vorrebbe estendere all’intero mondo del lavoro, come ci dimostra la designazione di Poletti, presidente di Legacoop, a ministro del lavoro. La ristrutturazione degli apparati produttivi e della governance aziendale ha ormai spinto all’estremo quel processo di esternalizzazione di attività ritenute secondarie che vengono appaltate, sia dal pubblico che dal privato, ad altre società, spesso cooperative. In questo modo il soggetto pubblico (Università o Comune) che beneficia del servizio se ne lava le mani, appaltando ad una cooperativa il servizio, imponendo gare al ribasso in cui la cooperativa per vincere fa offerte sempre più basse. E poi come fa a guadagnare? Nessun problema, tanto ci sono i lavoratori che possono essere sfruttati sempre di più e permettere così ugualmente alla cooperativa di fare utili. Questo è un modello diffuso anche nel mondo dei privati: pensiamo alla vertenza dei facchini dell’Ikea, anch’essi formalmente dipendenti da una cooperativa, ma di fatto sotto il comando dell’impresa che disciplina e dirige la filiera, imponendo costi, tempi, ritmi di lavoro. In questo quadro risulta fondamentale attaccare, oltre alla cooperativa, responsabile diretta dello sfruttamento dei lavoratori, anche chi gestisce l’appalto, chi sta a monte ed usufruisce delle prestazioni dei lavoratori delle coop. In questo senso ci sembra che le frasi del neo ministro Poletti sul caso-Granarolo, «Non si possono imputare a Granarolo le scelte di una cooperativa sua sub-fornitrice», ci indichino bene quale sia uno degli obiettivi di questa politica di esternalizzazione: non solo ridurre i costi, ma anche spaccare il fronte dei lavoratori ed allontanare il padrone dalle possibili rivolte e rivendicazioni dei lavoratori, in un gioco in cui l’ente appaltante se ne chiama fuori in quanto non direttamente in causa, e l’appaltatore si giustifica dicendo che per vincere la gara, e quindi lavorare, bisogna fare offerte basse e quindi poi contenere i costi attraverso la compressione dei salari o delle ore di lavoro.

bidelle_torino_scioperoQuesto sistema, inoltre, permette continuamente di ridurre i salari dei lavoratori e togliere loro ogni residua tutela, perché sarà sufficiente cambiare le caratteristiche dell’appalto in quanto i lavoratori, anche se assunti a tempo indeterminato presso la cooperativa, sono costretti a variare le ore lavorate, il salario percepito, le mansioni che devono eseguire, i diritti di cui dispongono ad ogni nuovo appalto. Sempre rimanendo nel campo dell’istruzione potremmo citare il caso delle bidelle delle cooperative che puliscono diverse scuole nel torinese: queste qualche mese fa, in seguito alla ridiscussione dell’appalto, sono state costrette a ridurre le ore di lavoro, e quindi il salario percepito, ma continuando a dover pulire le stesse aule, con un evidente aumento dei carichi di lavoro e una drastica riduzione del già magro salario. Non solo, la cooperativa vorrebbe anche che queste seguissero dei corsi per poter poi all’occorrenza sbrigare lavori di idraulica, pittura e manutenzione ordinaria, andando così a sostituire i lavoratori specializzati in quelle attività.

Tuttavia in queste due mobilitazioni abbiamo incontrato una realtà di sfruttamento che va al di là del contratto di lavoro, del salario o dei diritti negati (ferie, malattia, permessi). Abbiamo toccato con mano il non rispetto che i padroncini delle cooperative ed i loro sgherri hanno nei confronti dei lavoratori: insulti, minacce, razzismo, maltrattamenti sono all’ordine del giorno. Una situazione che ci fa capire quanto si sentano intoccabili e proprietari non solo del lavoro altrui, ma anche della dignità della persona. E allora va bene entrare nello stanzino e rispondere male alla lavoratrice che si sta cambiando; va bene minacciare i facchini e le bidelle di non scioperare, bandire il sindacato che decide di fare sciopero. Seguendo alla perfezione il modello Marchionne il sindacato e i diritti dei lavoratori vanno bene finché non intaccano il profitto dell’azienda: fate pure le assemblee, ma non bloccate i cancelli; fate pure sciopero un giorno, tanto mandiamo le colleghe a sostituirvi. Ma sia mai che ci blocchiate davvero il mercato per più giorni; sia mai che possano davvero scioperare compatte tutte le bidelle dell’ateneo.

Queste giornate ci hanno insegnato come anche all’interno di due situazioni che parevano pacificate (chi fino a due settimane fa aveva sentito parlare dei facchini del Caat, chi ancora oggi conosce la situazione delle bidelle del Politecnico?) ci siano in realtà, sopite, situazioni di disagio e sfruttamento molto elevate, di come vi siano persone ancora disponibili a lottare per la propria dignità e di come queste situazioni siano in realtà molto più vicine di quanto non possa apparire ad uno sguardo superficiale.

Il blocco dei facchini ha mostrato un livello di conflittualità, e di riuscita, chiaramente non paragonabile rispetto allo sciopero delle bidelle, ma ciò che lo ha reso davvero efficace è stata proprio la comunicazione interna tra loro e la capacità di generalizzare il blocco, coinvolgendo anche i facchini delle cooperative meno “cattive”. Se vorranno riuscire nella loro lotta anche le bidelle dell’università dovranno avere la capacità di unirsi alle colleghe di corso Duca e magari alle altre bidelle delle cooperative che puliscono (e subiscono le stesse condizioni) le scuole del torinese, e ancora ai tecnici-amministrativi dell’ateneo che si sono mobilitati negli scorsi mesi per la stabilizzazione dei tantissimi precari. In questo senso il successo del blocco del Caat ci dimostra come la solidarietà attiva sia una carta fondamentale e decisiva e proprio la specificità del soggetto che lì si è mobilitato, il soggetto migrante, ci lascia sperare, in quanto ancora in grado, forse a differenza nostra, di fare comunità: il risultato parziale ottenuto ai mercati generali potrebbe così diventare patrimonio comune, contribuendo ad innescare altre lotte di lavoratori migranti attraverso il passa parola innescato dai facchini del Caat.

Ciò che ci lasciano queste giornate è una vecchia consapevolezza: SOLO LA LOTTA PAGA! Come leggere altrimenti il repentino cambio di atteggiamento delle cooperative dei facchini e delle bidelle nei giorni immediatamente successivi agli scioperi? Non ci illudiamo certo che i problemi saranno tutti risolti, non saremo mai soddisfatti di contrattare il “giusto livello di sfruttamento”, tuttavia dobbiamo avere memoria, sedimentare coscienza sulla contrapposizione tra i nostri interessi e quelli di chi ci sfrutta appropriandosi del nostro lavoro, consapevolezza della nostra forza e di ciò che possiamo fare uniti: servirà molta più organizzazione perché di certo loro non staranno con le mani in mano, ma anche queste giornate, come quelle dei facchini dell’Ikea, ci confermano che non possiamo aspettarci di vedere rispettati i nostri diritti solo perché scritti sulla carta, ma dobbiamo tornare a lavorare per costruire rapporti di forza che ci permettano di imporre le nostre condizioni. Delle condizioni che non possono accettare da un lato persone costrette a lavorare 12 ore al giorno in condizioni infami per una paga misera, e dall’altro migliaia di disoccupati in coda al centro per l’impiego, che un lavoro lo vorrebbero, ma non lo trovano; lavoratori in cassintegrazione mentre altri fanno straordinari. Unire chi il lavoro non ce l’ha, chi ne ha troppo e chi vive nel continuo oscillare tra lavoro e non-lavoro deve essere uno dei nostri principali obiettivi: per vincere non ci possiamo accontentare di difendere un “giusto livello di sfruttamento” o degli pseudo-diritti ormai svaniti, ma dobbiamo necessariamente riattrezzarci per il contrattacco. Per farlo dobbiamo essere compatti e coscienti, perché solo uniti e consapevoli possiamo vincere!

da Colpo – Collettivo Politecnico

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